BURNING FIGHT

GENERE: Beat'em Up | PRODUTTORE: SNK | SVILUPPATORE: interno | GIOCATORI: 1-2 | ANNO: 1991
Quando, nel 1991, raggiunse i cinema di mezzo mondo, Resa dei conti a Little Tokyo passò quasi inosservato. Era l'ultima porzione avanzata di un piatto, quello dei film d'azione a base di arti marziali, oramai nauseante persino per il più goloso degli appassionati. Che, del resto, ne avevano fatto una paurosa indigestione durante tutto il decennio precedente.

Eppure metteva in fila un grande regista di genere (Mark L. Lester), due protagonisti decisamente bene assortiti (Dolph Lundgren nei panni del roccioso ed integerrimo poliziotto Chris Kenner ed il figlio d'arte Brandon Lee in quelli del collega scapestrato-ma-con-un-cuore-così Johnny Murata), un'ambientazione fascinosa quanto basta (la Los Angeles dei primi anni Novanta, descritta portando lo spettatore per mano tra bassifondi, locali notturni e quartieri orientali) e dei cattivi che più cattivi non si può (gli appartenenti alla Yakuza, la temibile mafia giapponese). Evidentemente tutto ciò non era abbastanza ed il film, con le sue scazzottate e sparatorie, i suoi dialoghi che tentavano maldestramente di essere brillanti senza riuscirci ed i continui, imprecisi e goffi riferimenti alla cultura nipponica, cadde subito nel dimenticatoio.

O meglio: cadde nel dimenticatoio per chi non è mai entrato in una sala giochi in vita sua. Perché, agli occhi dei videoludomaniaci più invasati, di certo non sfuggì che Resa dei conti a Little Tokyo era, sin dal titolo, la perfetta rappresentazione cinematografica del picchiaduro a scorrimento definitivo. Tutti gli elementi che lo caratterizzano citati in apertura rientrano infatti nel canone ideato da Nekketsu Oyaku e Spartan-X, perfezionato da Double Dragon ed elevato ad altezze siderali da Final Fight. Ci sono i luoghi, le facce, le dinamiche, i colori ed i suoni di uno dei filoni più amati ed odiati dell'intrattenimento elettronico classico. È tutto così perfetto e così perfettamente scelto ed amalgamato da far chiedere a chi, già avveduto, se ne sottopone alla visione, quale sia l'ipotetico (ed inesistente) videogioco da cui l'opera di Lester è tratta.

Ed è qui che entra in scena Burning Fight, titolo per il potente Neo-Geo che la SNK fece uscire sul mercato lo stesso anno della pellicola sopra citata e che, in tutto e per tutto, potrebbe esserne la controparte uno-zerica. Cambia il numero dei protagonisti (tre invece di due), ma ci sono i bassifondi, i quartieri orientali, la Yakuza, le scazzottate (tante) e le sparatorie (poche). Dal punto di vista esclusivamente ludico, nel complesso, Burning Fight lascia molto a desiderare. Alla formula di Final Fight aggiunge davvero poco (due tasti di attacco diversi che però, incredibilmente, danno meno possibilità operative rispetto al capolavoro Capcom e una serie di trappole ambientali disseminate per i livelli) ed il resto di quel che propone non fa certo gridare al miracolo, tra collisioni approssimative, ripetitività insostenibile ed una curva di difficoltà tarata piuttosto male.

Nonostante ciò (o forse proprio per questo) Burning Fight affascina e si lascia giocare. Saranno i colori caldi e vibranti, saranno personaggi e nemici stereotipati al limite del plagio eppure tutt'oggi efficacissimi nel portare su schermo suggestioni metropolitane che si credevano sepolte sotto il peso del tempo, o le sue ambientazioni che, pur gridando ai quattro venti l'epoca di provenienza, sanno creare un'atmosfera irresistibile proprio grazie alla loro ingenuità, ma chi inizia a mettervi gettoni dentro finisce accalappiato da una forza misteriosa che non lo abbandona fino alla scarna sequenza finale.

E visto che è esattamente questo il compito di ogni buon videogioco, il rispolvero dell'arcaico picchiaduro a scorrimento SNK qui in esame merita perciò più di un semplice pensierino. Nel rigiocarlo nessuno gridi al miracolo, quindi. Ma nessuno gridi neanche allo scandalo se ci permettiamo di definirlo, a suo modo, un piccolo classico.
Andrea Corritore
Burning Fight

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