BIO HAZARD

GENERE: Action/Adventure | PRODUTTORE: Capcom | SVILUPPATORE: interno | GIOCATORI: 1 | ANNO: 1996
Col senno di poi (ma giova sempre ricordare che dello stesso son piene le fosse...), si può ben dire che Bio Hazard portasse con sé i segni del predestinato al successo. L'esordio Capcom nel futuristico mondo della terza dimensione incarnava tutto ciò che il pubblico di metà anni Novanta sognava e voleva. Prestanza tecnica calcolata in tempo reale, ultraviolenza, narrazione para-cinematografica, carisma e personalità di ambienti, protagonisti e comprimari: tutto sembrava fatto apposta per innescare quel'irreversibile processo di mitopoiesi che nel corso del tempo ha reso immortale ogni videogioco fra quelli passati alla storia. Eppure le origini del peculiare titolo targato Osaka erano decisamente più sotterranee se non proprio sperimentali, tanto che la stessa grande "C", almeno inizialmente, proprio non si aspettava di avere fra le mani un nuovo potenziale campione di incassi.

Ispirato ufficialmente al misconosciuto Sweet Home per Famicom, su Bio Hazard aleggiava in realtà lo spettro di Alone in the Dark, dal quale mutuava la struttura a metà strada tra avventura dinamica e gioco d'azione in terza persona basata sull'equilibrio tra esplorazione, combattimento e ragionamento e rappresentata tramite fondali bidimensionali con inquadrature fisse sui quali si muovevano i modelli poligonali dei personaggi e dei loro avversari. E con un'ambientazione Horror che, ai raffinati riferimenti Lovecraftiani del modello, sostituiva il gustoso popolarismo del cinema occidentale di serie B reinterpretato con adorabile tocco nipponico. Anche la presenza di due eroi inizialmente selezionabili, che influenzavano il livello di difficoltà modificando alcune scene durante lo svolgersi degli eventi, era ripresa dal classico firmato Frédérick Raynal. Influenze, insomma, non esattamente all'ultima moda, sulle quali Capcom, però, lavorò di fino per snellire e modernizzare gli aspetti meno piacevoli, in modo da renderne più digeribili le dinamiche a chi non era avvezzo al pionieristico primitivismo interattivo del mondo MS-DOS.

Da questo fertile terreno di coltura sbocciò in pieno lo straordinario talento di un grande creativo come Shinji Mikami (qui al suo debutto adulto dopo alcune produzioni minori sparse fra GameBoy e Super Famicom), espresso tramite un'opera per molti versi rivoluzionaria, capace di centrare in pieno al primo colpo quello che era il suo obiettivo principale: fare paura. Aggirarsi provando a sopravvivere il più a lungo possibile, soli e armati di una pistola quasi scarica e senza erbe curative, per infiniti corridoi semibui con il sospetto che qualcuno o qualcosa attendesse nell'ombra, era un'esperienza sconvolgente ed assolutamente inedita. Ed era proprio "sopravvivenza" la parola chiave di Bio Hazard, visto che la morte poteva arrivare ad ogni passo. La combinazione perfetta tra ferocia e pericolosità dei nemici, carenza cronica di munizioni, mancanza di spazio nell'inventario e insicurezza costante (persino i salvataggi erano limitati dal numero di nastri di inchiostro posseduti) creava una tensione drammaticamente intensa che andava ad ingigantire, esaltandolo al massimo, un densissimo coagulo di strategia, pianificazione ed azione ancora oggi ineguagliato. Ogni passo andava infatti accuratamente studiato, soppesandone vantaggi e svantaggi, studiando i percorsi migliori, valutando quanto, come e soprattutto se attaccare i mostruosi avversari, in mappe che sembravano cucite come un guanto addoso ad un simile impianto ludico, magnficandone il colossale tormento e la conseguente estatica gratificazione quando si riusciva a portare a casa il risultato.

Un malevolo crogiolo di sensazioni amplificato a dismisura dall'indimenticabile atmosfera che Mikami e la sua squadra furono capaci di donare al loro deforme pargoletto digitale. La tenebrosa magione che faceva da sfondo alla vicenda era ricreata in maniera talmente magistrale da divenire essa stessa la reale protagonista degli eventi, sorta di gotica creatura non vivente ma dotata di una storia, di un carattere e di una organicità tali da renderla matrigna cattiva eppure seducente, tra le cui braccia si ritornava sempre con quella curiosità malata tipica di chi si avventura in posti nei quali non dovrebbe mai andare. Le inquadrature da thriller post-moderno tramite cui era visualizzata gelavano il sangue per mezzo di un intelligente utilizzo del "vedo/non vedo", che faceva schizzare a livelli impensabili angoscia ed adrenalina in un turbinio vorticoso di colpi al cuore e contrazioni sfinteriche. L'indispensabilità dei suoi scenari nella definizione dei momenti chiave fece subito scuola (come non rammentare il corridoio con i cani o la mansarda usata come tana dal gigantesco serpente mutante?). Il senso di decadente, putrescente marciume che impregnava ogni muro, ogni mobile, ogni suppellettile entrava sotto la pelle del povero detentore del pad, valorizzando ulteriormente il già devastante senso di pericolosa precarietà in modo da generare un'intensità emotiva mozzafiato, a sua volta madre di un videogioco come mai se ne erano visti prima di allora.

Ecco perché, a dispetto dei numerosi limiti, si può usare senza timori la definizione "capolavoro assoluto". Mai più nessuno riuscirà cosi bene a veicolare il terrore come Bio Hazard, un titolo in grado da solo di ridefinire i canoni di un intero genere (che, da lì in avanti, prenderà il nome di Survival Horror) in maniera così efficace ed iconica da imporlo anche commercialmente come uno dei filoni più adorati, gettonati, abusati di tutta la storia dell'intrattenimento interattivo.
Andrea Corritore
Bio Hazard

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